Perché l’Occidente deve fermare l’Iran
In anteprima, l’editoriale che ho scritto per “L’Occidentele”
Gerusalemme. Invece di trincerarsi dietro vuote frasi, come la lapalissiana costatazione del ministro degli Esteri francese, Alain Juppé – “Un attacco all’Iran destabilizzerebbe l’intera regione” (sic) – Stati Uniti e ciò che resta dell’Unione Europea dovrebbero fare fronte comune con Israele e accompagnare nuove draconiane sanzioni economiche con la minaccia tangibile e certa di un intervento militare se l’Iran non rinuncerà al suo programma nucleare. Solo così, forse, si scongiurerebbe il peggio: un attacco preventivo e solitario di Israele, che a Gerusalemme è visto ancora come un’estrema, pericolosa spiaggia, ma che il premier Benjamin Netanyahu e il ministro degli Esteri Ehud Barak considerano la loro missione storica per scongiurare un secondo olocausto.
Il dilemma più difficile che nella sua pur travagliata storia mai Israele si è trovato ad affrontare è riassunto nel rapporto dell’AIEA – l’Agenzia internazionale per l’Energia Atomica. Secondo quanto trapelato, l’Iran nell’ultimo decennio ha corso senza sosta verso l’obbiettivo di diventare una potenza nucleare ed è orami vicinissimo al punto di non ritorno Il regime degli ayatollah ha ricevuto l’assistenza determinante di elementi stranieri: Pakistan, Corea del Nord e ingegneri dell’ex Unione Sovietica, tra cui spicca il nome di Vyacheslav Danilenko. Grazie a questo apporto, l’Iran è riuscito a superare uno degli ultimi scogli sulla strada del nucleare: la fabbricazione e il collaudo del cosiddetto generatore R265. Lo spiega, sulle colonne del Washington Post, David Albright, ex membro della’AIEA e oggi presidente dell’Istituto per la Scienza e la Sicurezza internazionale. Il generatore R265 è un contenitore in alluminio dove esplosivo convenzionale viene fatto detonare all’intensità necessaria per innescare una carica di uranio o plutonio. Il dato più sconfortante del rapporto dell’AIEA è che il programma nucleare militare dell’Iran è proseguito praticamente senza sosta nell’ultimo decennio. Smentito dunque il rapporto delle agenzie di intelligence statunitensi, secondo cui l’Iran aveva sospeso il programma militare nel 2003. Quella sospendente conclusione, annunciata nel 2007, l’ultimo anno della presidenza Bush, fermò, di fatto, i piani israeliani e statunitensi di un attacco preventivo.
Quattro anni dopo, la situazione è estremamente più complessa. Dal punto di vista militare, l’operazione presenta una difficoltà senza precedenti per Israele. Barak ha svelato, ad esempio, che l’istallazione nucleare sotterranea costruita nei pressi di Qom è a prova di armi convenzionali. Le difese anti aeree iraniane, poi, costituiscono un ostacolo ben più temibile che quelle irakene e siriane, che sono state neutralizzate senza difficoltà nei raid contro istallazioni nucleari rispettivamente nel 1981 e nel 2008 Infine, l’Iran dispone di 300 missili a lunga gittata e può contare sull’arsenale di Hezbollah, centomila razzi capaci di colpire l’intero territorio israeliano. In caso di conflitto, Israele sarebbe sottoposto ad un fuoco senza precedenti.
Un attacco all’Iran, senza il sostegno di una più ampia coalizione internazionale, è un rischio che è difficile calcolare. Eppure, Netanyahu e Barak nell’ultima settimana hanno volutamente fatto di tutto per proiettare all’esterno il senso di un Paese che si prepara a questa eventualità. Le grandi linee del dibattito in corso nell’establishment politico e di sicurezza sull’opportunità o meno di un intervento militare contro l’Iran sono trapelante dalle maglie solitamente strettissime che proteggono il segreto sul dossier più spinoso del momento. Nell’arco della sola ultima settimana, Israele ha condotto un test di lancio di un missile a lungo raggio, un’esercitazione aerea nei lontani cieli della Sardegna, una simulazione di attacco con armi chimiche a Tel Aviv. Contemporaneamente, l’amministrazione Obama ha fatto trapelare una crescente inquietudine sulle intenzioni di Gerusalemme. Un funzionario del Pentagono ha svelato la preoccupazione che Israele possa agire senza il disco verde Usa.
Gioco delle parti? Partita a poker? Nulla si può escludere, in Medio Oriente. Ma la conoscenza approfondita dell’equilibrio che garantisce l’esistenza dello stato ebraico porta a conclusioni diverse. La Bomba nelle mani della teocrazia sciita di Teheran innescherebbe una corsa all’Atomica in un Medio Orienta, dove le forze radicali sono in ascesa a scapito della storica influenza statunitense. E’ auspicabile che Stati Uniti e Europa non lascino solo un alleato strategico in un momento così cruciale. A destabilizzare il Medio Oriente non è l’opzione militare ma il programma nucleare di un regime fanatico che nega l’olocausto mentre ne prepara un secondo. Come ha detto il presidente Shimon Peres, rompendo la sua proverbiale cautela, il tempo è agli sgoccioli e l’Occidente è chiamato a dimostrare nei fatti che l’impegno preso per la sicurezza di Israele non è carta straccia.
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Monique
Coraggioso il tuo appello, Claudio! Ti ammiro per la tua lucida obiettivita'. Temo pero' che l'unico aiuto a Israele possiamo a questo punto aspettarcelo dal cielo! Chissa' forse un'auto implosione accidenatale della loro orribile istallazione nucleare sotterranea? O un nuovo virus letale nei sistemi operativi del generatore? Piu' probabile un "miracolo" che un aiuto dai nostri amici, occidentali! Continuiamo a sperare.